Storytelling per aspiranti Eroi: la storia di Felix (1) (continua)

 

Follow your bliss. The heroic life is living the individual adventure. 

There is no security in following the call to adventure.

Nothing is exciting if you know what the outcome is going to be.

To refuse the call means stagnation.

What you don’t experience positively you will experience negatively.

You enter the forest at the darkest point, where there is no path.

Where there is a way or path, it is someone else’s path.

You are not on your own path.

If you follow someone else’s way, you are not going to realize your potential.

Joseph Campbell

 

Il Viaggio dell’Eroe. Storia di Felix, il Guerriero

Raffaele Iannuzzi

 

A Felice, il primo guerriero
conosciuto, appena nato.

 

 

                          La chiamata all’avventura

 

Trattava la vita con gratitudine, come fosse una sorella allegra, quindi una vera rarità, sempre pronta a donare se stessa per il bene del fratello. Era tutto semplice, ma a dire il vero non facile. Il diavolo è nei dettagli.
Ad ogni buon conto, questa è la storia di un eroe senza terra, ma con robuste radici coltivate nelle profondità dell’anima, sopravvissuto a sé stesso, in un mondo che ha dichiarato morto l’onore e ogni forma di giustizia e rettitudine. Fare la cosa giusta è l’atto più empio in un mondo di questo genere. E’ il deserto che sembra non vacillare e che certamente non ha pietà dei deboli, anche se giusti; l’inferno che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di descrivere, collocato oltre ogni obliquo calcolo diabolico. E’ l’inferno in cui non c’è più neanche bisogno di opprimere l’altro o incatenarlo, per poi giustiziarlo: i giochi sono fatti, il risultato è a somma zero. Chi vive in questo mondo?
L’eroe è un disoccupato a regime permanente, senza un compito preciso, anche se deve, in realtà, faticare per tenere a bada l’ambiente che lo circonda. Un ambiente che vuole soltanto una cosa: rendere superflua ogni fede. A cominciare dalla sua. Il mondo degli equilibri diabolici è pericoloso come il sorriso falso di una donna che cerca di sedurti, per poi spogliarti di tutto. E’ un rettangolo di blasfemia e finto ordine: tutto deve essere uguale a se stesso, nessuna differenza specifica. Quindi, l’individuo bellicoso e pensante è morto. Ma questo de profundis non vale per tutti. Ad alcuni non piace pregare a comando e soprattutto chinare la testa davanti ai diktat di un potere invertebrato. Per alcuni, l’urgenza di una fede schiarisce la testa sul campo di battaglia; una volta si facevano le guerre e tu dovevi collocarti, stare di qua o di là, oggi qualcuno, anzi molti, troppi, hanno deciso di dichiararsi pacifisti ed estranei ad ogni lacrima altrui, perché mai e poi mai a loro toccherò in sorte di far piangere una madre. Ma chi non sopporta il dolore procurato agli altri per un bene più grande ha già ucciso sua madre e trucidato il padre, ma l’ha fatto col silenziatore ben funzionante, e chi doveva sentire urla e spari non ha potuto farlo. Ammazzare in un mondo in cui non c’è più necessità di essere giusto e buono è come fare l’amore in un bordello: nessun rischio, basta il cash e alla fine puoi anche firmare un assegno, se vuoi. Così era, così è, e tutto appare troppo perfetto, pur assediato da un oceano di complicazioni. E’ troppo perfetto, ma non è troppo semplice, è solo troppo funzionante. Tempi duri per la fede. E per gli eroi?
Dichiararlo subito non è peccato: un eroe senza fede è come un albero senza radici, non esiste, non è pensabile, non è desiderabile. Ma il progetto dei “troppo perfetti” era chiaro: qualsiasi bagliore di verità, luce, bellezza doveva essere ridotto all’insignificanza assoluta, addomesticata o – peggio ancora – ridotta a chiacchiera superstiziosa. Gli uomini potevano avere soltanto il diritto di nutrirsi, sopravvivere dunque, fornicare a più non posso (senza troppo desiderare, ma del resto in un mondo senza verità il desiderio è pura gelatina), ma non potevano in alcun modo sollevare al cielo il calice dorato contenente le domande universali ed eterne, quelle solitamente introdotte da un pericoloso “perché”. Un “perché” al quale si dà una risposta e la risposta è materiale, tocca, spacca e contamina fino in fondo, non è l’immaginazione religiosa di qualche ubriaco trascinato fuori dal recinto degli schiavi obbedienti. Troppo duro, questo, da accettare, per chi non vuole toccare la carne che si spacca e l’anima che si erode di fronte alle mancanze di assenso all’ultimo richiamo divino. Tutto perfetto per non dover soffrire e percepire il taglio feroce della carne imperfetta. E tutto fermo, per non deteriorare l’ordine artificiale e plasticato.
L’acqua stagnante, si sa, imputridisce e questo era il gioco estremo delle parti, in fondo: c’è chi domina e chi è dominato. Questa vita svuotata del dramma della scelta, dunque della libertà, era più nauseabonda dello stupro di una figlia. Un tragico vuoto: c’è forse violenza più grande, a memoria d’uomo? Uno zero grigio, senza qualità. Meschina come una guerra senza vincitori né vinti. La gloria di un deserto austero e disossato. Qualcuno ha definizione più certa della morte?

Qualche superstite? C’è una storia in ballo.

Quella di Felix, l’ultimo eroe.
Felix era un superstite ben allenato, ormai. Di quelli veri e provati al fuoco della residualità. Margini considerati impuri, ecco di che si tratta. I margini, dunque, erano il suo tempio. Proveniente da una nobile e antica famiglia di eroi, uomini riservati e introversi, sempre pronti ad uscire dalla propria gabbia d’acciaio per rendere onore alla verità. Genitori uccisi, quando lui era ancora bambino. La sua vita era tutto ciò che possedesse.
Il motto della sua nobile e antica casata era incastrato in alto, nella parte più alta del fortilizio, sprofondato nei boschi del Nord: Vis grata puellis. La forza è gradita alle fanciulle. Tutti potevano leggerlo e tutti potevano farsi domande, da uomini. Domande che contavano qualcosa, pesanti, introverse come le personalità di questi reali difensori della pace. Si vis pacem, para bellum – “Se vuoi la pace, prepara la guerra”. Il padrino di Felix, Goran, uomo del Nord, colui che aveva raccolto ed allevato il bambino che piangeva di fronte ai cadaveri dei suoi genitori, essendo a sua volta amico di suo padre, chiudeva così le riunioni di famiglia, quei conviti fatti di poche parole e molto stupore di fronte alla realtà sempre più rattrappita in un falso ordine delle cose. I guerrieri non devono capire tutto, ma devono obbedire alla verità, e in questo nuovo ordine delle cose di verità ce n’era veramente poca. Tutto sapeva di artificiale e artificioso, stantio, povero: qualcuno ha visto uomini armati? No, rispondevano i capi delle legioni. Allora che popolo è mai questo?

Nessuno fra di loro comprendeva. Le armi ripulite dalla ruggine erano sempre pronte, ma nessuno, là fuori, era pronto a conferire incarichi per nuove guerra giuste e questo sconcertava la famiglia dei guerrieri. Chi non combatte non vive. Sentenze così esatte e calibrate, nutrite di poche antiche parole trapelavano fieramente dalle bocche, spesso ferite per il troppo mordere il cuoio, dopo aver subito ferite profonde in battaglia. Ma nessuno, là fuori, rispondeva. Chi attendere, dunque? Chi era disposto a morire sul campo di battaglia?
Felix ricordava tante cose. Le belle cose del tempo che fu, le libagioni di memoria sono le più gradite la palato di maschio che guerreggia. Fin troppo piacere cola da quelle labbra, in quel colmare il calice della memoria c’è tutto il distanziarsi sacro della percezione, e infine la stesura ultima di ciò che rimane, qui e ora, sul terreno: cosa, in definitiva? Le macerie sono speciali solo per chi si accontenta, chi combatte vuole fare di esse l’immagine di un futuro al soldo della verità, un fortilizio della vita, stabile e cavalleresco. Cavalieri, alle armi!

La corporatura di Felix era fatta per la guerra. Massiccio, muscoloso ma veloce, barbuto ma senza ostentazione e vanità, statura media, non più di un metro e settanta, piccolo se paragonato agli altri giganti del Nord, ma quelli erano i perdenti al tavolo dei geni della spada, di gente come Felix, allenato dai guerrieri più veloci e abili che mai occhio umano vide sul campo di battaglia. Non si trapassa il corpo del nemico con la forza, ma fingendo perfino fragilità, con la spada verso il basso, presa con le due mani, a schiena bassa, come in preghiera, facendo fare tutto lo sforzo all’altro, inconsapevole di tanta abilità scenica.

Quello spara tutta la forza per avventarsi sul corpo dei Felix e questo uomo robusto, con la barba contaminata dal grigiore dei giorni, si sposta di solito verso destra, schiva il colpo, facendo barcollare l’inetto gigante, e quindi sferra il colpo mortale alla schiena dell’avversario, popolata di ossa e vertebre. Morte certa. La spada è la geometria della guerra. Se la sguaini, e biancheggia furiosa, usala sempre, e sii umile, è lei che ti guida, sei tu lo strumento del suo candore vittorioso. La spada è come la volontà di Dio, seguirla è imperio della ragione.

Il corpo di Felix diceva molto della sua anima. Ferita, mai paga di avventure e capace di svernare all’inferno, pur di abbattere i muri della mediocrità. Aveva in sé la chiara percezione della verità racchiusa nel motto di famiglia: Vis grata puellis.
Per qualcuno è l’esaltazione della forza virile che abusa della debolezza delle donne. Il maschio stupratore contro la debole fanciulla, che nulla può contro la sua forza bruta. Ma non era così nella casata di Felix: quella forza era grata alle fanciulle, perché lui e i suoi fratelli andavano a liberare le donne intrappolate nelle spire del male e del potere. Non lo facevano per ribaltare la gerarchia sociale del loro tempo, ma semplicemente perché, se vuoi amare per davvero, hai bisogno di una donna da liberare e allora fai di tutto per liberarla. Lei te ne sarà grata e forse – dico forse – ti amerà.

Se così non dovesse essere, potrà tornare al suo stato di donna da prendere o corteggiare, senza nessuna ritorsione da parte del guerriero, al quale un rifiuto non fa poi così male. Perché fa parte della vita. Poi c’è sempre la guerra a consolare. La donna più importante è sempre lei, la guerra. Il guerriero può diventare eroe solo combattendo, è proprio questo il mestiere delle armi. Il primo, seguito dagli altri più comuni, del pensare e del costruire, al quale Dio ha conferito licenza assoluta. La Bibbia è piena di guerre perché Dio vince solo in battaglia, non vuole mediocri in circolazione ad annettersi anime spaurite e troppo caste per il regno dei cieli. Peccatori forti e muscoli adùsi alle spade, ecco cosa ci vuole per Dio e la sua eredità. Dunque, chi non combatte, anche se prega, è ateo della vita pura del Dio, prode in battaglia, che esercita le mani dell’uomo alla guerra.
Difendere i più deboli e liberare donne indifese, in fondo, è un bel mestiere, è il vero mestiere delle armi, che rende sempre più maschio il maschio e sempre più femmina la femmina, uno scambio alla pari, che alimenta il ciclo vitale della civiltà umana. Pensieri che, con la spada e l’ascia in mano, usata per la seconda carica, quella di assestamento, non vengono fuori così bene, ma che, a mente fredda, possono avere il loro impatto su quelle menti spiccatamente proclivi all’assalto dei castelli e all’uso della spada contro corpi di ogni dimensione.
E’ sacro l’ardore in battaglia, somiglia all’eros nel contatto carnale e innalza l’anima a vette mistiche. Il furoreggiar di spade fa scoppiare il cuore e riscalda il sangue, basterebbe questo per andare in guerra almeno ogni sei mesi. Infatti le guerre erano stagionali, a quel tempo, ma di questo forse non è il caso di parlare.

La storia che il trisavolo guerriero raccontava attorno al fuoco, durante i lunghi inverni, era sempre la stessa, ma non annoiava mai. Perché quest’uomo, così semplice e geniale, era in grado di arricchirla di sempre nuovi particolari, come accade sempre con le grandi storie, che si raccontano quasi da sole, senza mai temere la sovrabbondanza di dettagli.

Il vecchio Goran parlava lentamente, scandendo le parole, guardando un punto dannatamente disperso chissà dove. Il fuoco veniva alimentato dal più giovane, e toccava a quei tempi a Felix che rischiava spesso di bruciarsi, incantato dalle parole addomesticate da quell’antico guerriero, privo della benché minima ferocia, ancora molto forte e combattente di prim’ordine, saturo di saggezza, come gli otri di vino durante le grandi feste, dopo le vittorie in battaglia; era una festa della mente e dello spirito, tutto quel raccontare meditato e sapiente, qualcosa che andava oltre le cose stesse, ne afferrava anzi la coda per trascinarle là dove solo Dio può arrivare.
Come la musica più calda e sinuosa, come il seno della donna che hai visto con la coda dell’occhio, spavaldamente estatico di fronte alla tua spada, ma già conquistato, il racconto del vecchio era pacatamente tormentato dal fragore dei ricordi, dal crack delle sue esperienze rivisitate con cura.
Era l’anno primo della conquista. L’Insediamento, come lo chiamava l’antenato guerriero. Una guerra durata quasi vent’anni aveva dissanguato non solo i forzieri dell’esercito del Nord, ma aveva ridotto il morale delle guarnigioni, pur eroiche, allo stremo. Arriva un momento, dopo aver scannato troppi uomini, che fatichi a gioire per il nuovo territorio che marcherai. Artefice di queste conquiste fu a suo tempo il padre del guerriero nobile che narra la storia del suo popolo, il suo nome ha un che di inquietante, come una minaccia, Kurd, un capo volitivo e forte, a cui non mancava la favella, certamente più impulsivo e reattivo del figlio Goran, ma proprio per questo capace di alimentare una nuova esplosione di entusiasmo nelle truppe. Un uomo da campagna militare permanente.

Memorabile il suo discorso, breve ma intenso, di fronte ai guerrieri pronti all’ultimo scontro, dopo aver faticato come bestie per conquistare palmo su palmo le terre giacenti che proteggono i laghi e sovrastano i boschi, quelle dell’attuale regno, in decadenza, del Nord. Guerrieri intenti più a curare le proprie ferite, contando denari e appezzamenti da rivendicare, più che a sferrare l’ultimo attacco, il più nobile, quello che deve lasciare impressa nella memoria dei nemici la gloria semidivina del conquistatore. Era difficile far comprendere questo concetto a uomini così stanchi.

Non si trattava soltanto di chiudere la partita, davanti a uno sparuto gruppo di uomini ormai allo sbando e costretti a stare lì, a causa dell’orgoglio ferito dei loro generali, assenti dal campo di battaglia, ma insanamente desiderosi di rivendicare frammenti di salvezza, dopo aver condotto al macello gli uomini più valorosi e decenni di condotta onorevole nelle guerre. Contadini ora mal equipaggiati, una volta guerrieri, si ritrovavano ad essere solo contadini, tornavano allo stato d’origine, perché, quando perdi e continui a perdere, smetti di essere guerriero e ti ricordi solo, nostalgicamente, dello stato che hai abbandonato, quello di coltivatore di terre, della tua donna e dei tuoi figli, che vorresti riabbracciare.

Ma l’ottusità indecente di qualche armigero votato alla codardia non ti permette di far ciò, perché, se lasci il campo, la tua vita sarà a repentaglio e in mano dei futuri vendicatori. Un esercito sotto ricatto è solo un manipolo di sconfitti.

Kurd, tuttavia, non perse la testa e non si fece inebriare dall’odore acre e penetrante della vittoria, pensò a quegli uomini, che da lontano lo guardavano, mentre fiero, dritto sul suo destriero di razza slava, col manto a chiazze bianche e nere, come l’anima dell’uomo, raccoglieva pensieri di ordine e civiltà. Pensò a ciò che avrebbe dovuto fare, come capo militare e uomo, così avvantaggiato dagli eventi, in quel frangente.

Fu un bagliore – a questo punto la narrazione del vecchio si fa carica di emozione e sapore antico – e Kurd ritenne saldamente in mano il nuovo compito da svolgere. Si mise a correre verso il centro del campo di battaglia, esattamente a metà strada tra le sue truppe e quelle nemiche, così che alle prime dava la schiena e alle altre offriva la visione del suo volto, seppur a distanza. Scese da cavallo, si tolse l’elmo, con lentezza quasi studiata, e si inginocchiò di fronte ai superstiti dell’esercito nemico, sbigottiti e come terrorizzati da questa strampalata mossa del generale nemico. Che sta succedendo?
Kurd, allora, rialzatosi, disse (la narrazione rallenta ulteriormente il suo passo, cercando il baricentro per controllare le emozioni e la forza vividamente presente della memoria): “Uomini, nemici, guerrieri, ascoltatemi, queste saranno le ultime parole che udirete nella vostra vita di randagi mendicanti di verità. Ascoltatemi, dunque. Non abbiate paura: morirete tutti, ma non pensate a questo. Voglio dirvi altro. Siete figli della menzogna. Non è colpa vostra. Vi hanno condotto fin qui e non avete più via di scampo.

E’ colpa dei vostri generali, ma non disperatevi, neanche questo cancellerà il vostro onore, se esso sarà stato disseminato nel ruggire della battaglia. Io vi onoro. Io, che oggi posso tutto sulla vostra vita, vi onoro. Voi siete figli del vostro onore e niente e nessuno cancellerà ciò che di grande e onorevole avete fatto fin qui. Dio ascolterà le vostre preghiere tra poco, quando il fragore dell’ultima incursione spianerà la strada alla nostra vittoria definitiva. Ma non uscite sconfitti da questa guerra, anzi, uscite a testa alta, da uomini, da questa vita, e la vita è uno spettacolo senza guida umana, tenuto in mano dal Dio della guerra, non temete dunque per voi e neanche per le vostre famiglie, le vostre donne e i vostri figli, madri e padri. Nessuno perirà, dopo la vittoria finale. Misericordia sarà l’ultima parola, dopo l’ultimo colpo di spada”.

Si rialzò, ringhiando intimamente per questo gesto di forza e audacia, tutto sarebbe andato per il verso giusto. Quando la strategia e il cuore si incontrano, la terra e il cielo celebrano le nozze davanti al mondo degli innocenti.

 

Furono le prime e ultime parole proclamate di fronte ai nemici, allo stremo.

“Sangue e verità” – commentò il vecchio, sempre fissando quel punto collocato altro, invisibile agli occhi di chi lo stava ad ascoltare, ipnotizzato. Riprese, lento, il racconto.

Kurd, dopo il discorso alle truppe nemiche, allentò le briglie del suo destriero, impigrito dall’attesa, e recuperò il campo, con passo severo e controllato. Ora toccava ai suoi uomini.
Spauriti e attoniti, dopo aver visto una scena che nessuno avrebbe mai potuto dipingere nella sua mente, neppure dopo aver passato intere notti tra alcove e osterie, i soldati dell’esercito del Nord, attendono il loro capo. Sanno che qualcosa succederà e che questo evento non sarà mai più cancellato dalla memoria, dei vivi e dei morti.

Qualcuno spinge la lancia sempre più giù, spaccando la terra, rigonfia di erba ormai rinsecchita; qualcun altro estrae dal fodero la spada, arrugginita, e comincia a ripulirla dalle incrostazioni più evidenti; non mancano respiri tesi e affannosi, tutto è davanti a loro: ma cosa?

Kurd scende da cavallo, ma stavolta, ovviamente, non si inginocchia, perché un capo vittorioso deve mostrare umiltà davanti agli sconfitti, ma non di fronte ai suoi soldati.
Prima di parlare, li guarda tutti, dal primo all’ultimo, con uno sguardo apparentemente sfuggente, ma con ciascuno di loro aveva combattuto fianco a fianco, almeno una volta, durante le lunghe campagne militari, con molti di loro aveva trovato la strada della salvezza in battaglia e dunque ne sentiva profondamente il calore corporeo, il pathos sulfureo, anche a distanza. Occhi di fuoco e respiro calmo.
“Miei guerrieri e fratelli, avete ragione: dovete temere questa giornata. Perché dovete temere voi stessi. Il nemico è dentro di voi, il leone ruggente cerca di sbranarvi e la tana del leone è il vostro cuore. Voi avete paura di vincere perché avete paura di vivere. Avete paura di dover affrontare, domani, ciò che oggi tocca in sorte a questi uomini, denutriti e abbattuti, che vi trovate di fronte. E’ questo l’ostacolo maggiore. Quando si combatte, agli inizi, tutto è in gioco, perciò anche la paura diventa un’alleata. Ma quando si vince e si vince ancora, fino all’ultimo scontro, allora il cuore teme di cedere, perché sopportare l’annientamento dell’altro, come se l’altro non fosse uno di noi, è cosa turpe e dolorosa. Avete ragione, ciò fa di voi degli uomini.

“Tuttavia, oggi non è in gioco la vittoria, siete in gioco voi, proprio come uomini. Saprete vincere con la pietà che ha reso grande la nostra gente? Saprete uccidere senza folgorazione dei sensi, senza eccitazione o desiderio di vendetta? Saprete, quindi, ritornare alle vostre case, ai vostri affetti familiari, senza dover ricordare, giorno dopo giorno, la maschera del demonio che avete indossato durante l’ultimo scontro col nemico? Nessuno può rispondere al posto vostro. La risposta è nel vostro cuore. Ascoltatelo, sapendo di non potervi sottrarre a quest’ultimo compito. Dopo aver molto saccheggiato e portato lutti a popolazioni inermi, oggi la storia vi rende conto di tutto ciò che avete fatto in vita. Oggi la battaglia è il vostro confessionale, siete davanti a Domineddio, misericordioso e giusto. Tocca a voi. Fate vobis. Ma che nessuno cerchi giustificazioni per un gesto di codardia, perché allora assaggerà la mia spada. Il coraggio di andarvene, di uscire dai ranghi, dovete dimostrarlo ora, e qui, davanti a me, perché domani sarà soltanto gloria e amore coniugale o impuro a far da compagnia ai vostri giorni. Cosa volete dunque da voi e da quest’ultima battaglia?”.

Un grido belluino si alzò dalle gole dei suoi uomini, come fossero uniti da un laccio serrato proprio attorno al collo: “Onore! Vittoria! Morte giusta!”.

“Allora, uomini del Nord, all’attacco, serrando i ranghi e risparmiando le energie per le ultime frecce. Arcieri dietro i fanti e i cavalieri ad aprire la carica. Che Dio sia generoso con il nostro ardore”. Partì per primo il grande Kurd, generale attento alle mosse del nemico e, con il primo affondo, bagnò completamente la sua spada col sangue nemico. Dopo aver guadagnato lateralmente il passo, sgominato il primo sparuto drappello di arcieri, scese da cavallo, gettò via il mantello e tirò fuori l’ascia nordica, dura, pesante e tagliente, costruita dal fabbro dei suoi antenati col ferro e l’acciaio, fusi insieme come in una mescolanza di razze, come per celebrare la forza della guerra giusta.
L’ascia, brandita dalle possenti braccia di Kurd sembrava il castigo di Dio, e l’uomo del Nord la muoveva di qua e di là come in una danza sacra, come accade nelle danze dervisce, la scia di vento che faceva baluginare l’inatteso esito di sangue era sempre alle viste e chi capitava sotto questa gemma di violenza perdeva la testa o le braccia. Fu un massacro tinto di onore, la geometrica violenza fece il suo corso e nessuno si avvicinò ai cadaveri per infierire su di loro, mutilandoli, secondo gli antichi costumi dei barbari. La scelta dell’onore fu compiuta dai guerrieri del Nord e la patria, ora più ricca di tesori e possedimenti, si arricchiva anche di virtù e storie di guerra. Una storia come questa.

“Vinse l’onore di Kurd, mio padre, e i suoi celebrarono la vittoria di questo grande capo. Il nostro capostipite, l’ultimo grande uomo del Nord” – concluse così il vecchio Goran, sazio di giorni e onore. Sospirò, infine, e rimise la memoria nel cassetto. Il fasto di quei giorni era finito, ma gli uomini no. C’era dunque ancora speranza.

The Hero’s Journey (Joseph Campbell) – Source: http://www.generativenlp.com/introducing-the-heros-journey.html#.Wb-ZU4y0PIU

 

Goran bevve un sorso di vino dalla coppa che teneva sempre accanto a sé, durante i conviti con i fratelli guerrieri, e con il solito marmoreo candore domandò, prima a sé stesso, e poi agli altri: “Chi sarà il prossimo eroe del Nord, in questa decadenza?”.

L’ambiente si raggelò all’istante, come se le parole del racconto del vecchio non bastassero neanche ai muri del castello, reso oggi minore dalle minori occasioni di scontro con un regime molliccio capeggiato da giovani sempre pronti a comprare tutto. Nessuno combatteva più alla maniera tradizionale, dunque la guerra sembrava superflua. A che servono gli eroi in un mondo cosiffatto?

 

Ecco la domanda: A che servono gli eroi in un mondo cosiffatto? Il poeta Bertolt Brecht scrisse: “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”.

Quindi, l’eroismo riguarda solo esseri super-dotati che intervengono quando le cose si mettono dannatamente male? O piuttosto: l’eroismo appartiene naturalmente al nucleo vitale della vita e si esprime ogniqualvolta siamo disposti a rispondere alla chiamata della vita, spingendoci fin oltre la soglia di ciò che i canoni che la famiglia, la società e le cattive mitologie/mitografie del nostro tempo stabiliscono come “consentito”?

Se l’eroismo è ciò che descrivo sopra, allora “beato quel popolo che alleva eroi”.

E TU… cosa ne pensi?

(Continua…)

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